Intervista con la dr.ssa Roberta Cimino

I DISORDINI TEMPOROMANDIBOLARI e le possibili relazioni con il mal di testa, le cervicalgie e l’occlusione:

Intervista con la dr.ssa Roberta Cimino, specialista in ortognatodonzia e gnatologia

Si parla molto, oggi di  Disturbi Cranio mandibolari o cranio-cervico-mandibolari, ma cosa sono?

I disordini cranio mandibolari o temporomandibolari (DTM) sono disturbi del sistema stomatognatico che hanno la loro origine nella muscolatura masticatoria e/o nelle articolazioni temporomandibolari o in entrambe e nei tessuti a loro connessi. L’eziologia e la patogenesi sono a tutt’oggi poco conosciute. Si riconosce un’eziologia multifattoriale nella quale rientrano fattori anatomici, macrotraumi,  microtraumi (come le parafunzioni, tra le quali il  bruxismo), l’occlusione, e fattori genetici.

Ci dica, dr.ssa Cimino, come si diagnostica un DTM e chi è lo specialista che dovrebbe fare tale diagnosi?

La diagnosi è una diagnosi soprattutto clinica, oggi seguiamo in molti i Diagnostic Criteria, riconosciuti a livello internazionale, che consentono di arrivare, dopo un’iter diagnostico molto preciso, alla diagnosi e quindi consente di approcciarci al paziente disfunzionale nel modo più corretto possibile, facendo un’adeguata diagnosi differenziale, che consentirà di individuare i soggetti che necessiteranno del consulto di altri specialisti, quale il neurologo o il reumatologo o altro.

Lo specialista che visita il paziente disfunzionale, cioè un paziente che si presenta per un dolore al viso, alla testa, o per un rumore durante i movimenti mandibolari o per una limitazione funzionale, quindi una difficoltà ,ad es., ad aprire bene la bocca, sarà lo gnatologo, quindi un’odontoiatra o medico dentista specialista in gnatologia , che corrisponde alla specialità di Ortognatodonzia e Gnatologia.

Il paziente con DTM può soffrire anche di mal di testa, quindi di una cefalea dipendente dal DTM?

Si, il paziente con DTM può soffrire di un mal di testa attribuibile al DTM, e questo tipo di mal di testa può essere facilmente diagnosticato durante la visita al paziente, facendo una diagnosi differenziale con l’emicrania o altri tipi di cefalee che richiederanno, invece, la consulenza del neurologo. Per la cefalea attribuibile a DTM potremo, invece, intraprendere delle terapie che aiutino il paziente sia nella risoluzione del DTM che del mal di testa.

Dr.ssa ci dica, ma le cervicalgie e quindi i disturbi della spina cervicale possono essere causa di un DTM o coesistere in un paziente con DTM?

Possiamo dire che per ora sappiamo sicuramente che problemi di DTM e problematiche della spina cervicale possono coesistere in uno stesso paziente disfunzionale; ci sono lavori in letteratura che spiegano le molteplici connessioni anatomiche e possibili correlazioni tra DTM e cervicale, pertanto anche in questo caso le terapie specifiche per l’uno o l’altro distretto potranno dare beneficio ad entrambe le strutture.

Spiego meglio: se un paziente ha dolore cervicale ed intraprende terapie dal fisioterapista per curare la sua cervicale potrà beneficiarne anche a livello mandibolare, ad esempio aprendo meglio la bocca, e giovando di una riduzione del dolore temporomandibolare, se questo era presente in associazione al problema cervicale.

Viceversa una terapia fisica a livello temporomandibolare può migliorare la mobilità cervicale associata a mal di testa; quindi i fisioterapisti devono porre attenzione alle caratteristiche dei pazienti temporomandibolari con mal di testa, nei quali potrà non sarà sufficiente un trattamento per la spina cervicale  per risolvere la loro sintomatologia.

È stato sottolineato come il trattamento del fisioterapista diretto alla spina cervicale possa dare beneficio, riducendo il dolore a livello dei muscoli masticatori e consentendo al paziente di avere un aumento dell’apertura della bocca senza dolore.

Scientificamente si parla dell’efficacia delle terapie manuali per il trattamento dei DTM, pur trattandosi a tutt’oggi di un’efficacia ancora moderata per cui abbiamo bisogno di più dati a supporto di ciò; sicuramente però è da sottolineare l’importanza di far lavorare insieme  dentisti, fisioterapisti ed altri specialisti del settore

Adesso  dr.ssa ci dica cosa pensa della relazione dei DTM con l’occlusione?

Questo aspetto dell’eziologia dei DTM rimane complesso e le società scientifiche di tutto il mondo si confrontano e si scontrano su quale sia il ruolo dell’occlusione quale causa dei DTM.

Non si può dunque rispondere in maniera assoluta con un SI o un NO riguardo  tale ruolo. Sicuramente ci sono pazienti nei quali i fattori occlusali rivestono un ruolo importante, in altri pazienti questo non è vero; se così non fosse non si potrebbe spiegare perché soggetti con malocclusione possono essere privi di alcun sintomo/segno di disfunzione.

Quindi ci sono pazienti nei quali la risoluzione di talune problematiche di malocclusione o d’interferenze occlusali consentirà di avere un sistema stomatognatico che funzionerà in modo più corretto. Si avranno altri pazienti, invece, nei quali l’occlusione riveste un ruolo secondario e nei quali ci saranno altri i fattori che determineranno lo sviluppo del DTM.

L’aspetto più complesso, però, riguarda la capacità che deve avere l’operatore clinico per identificare il paziente nel quale l’occlusione ha un ruolo eziologico rispetto al paziente nel quale non lo ha, riuscendo quindi a fare un’adeguata diagnosi differenziale per poter  valutare altre cause del DTM.

Quindi dr.ssa come ci si deve comportare di fronte al paziente che viene a visita con una malocclusione?

Le malocclusioni vanno corrette, compito questo dell’Ortognatodontista. In un paziente disfunzionale, con DTM, è importante stabilire se la malocclusione possa essere responsabilie dei suoi problemi disfunzionali o no; in questo secondo caso, il rischio è che la malocclusione verrà corretta ma i problemi disfunzionali potrebbero non correggersi, in quanto hanno altra origine, e tra l’altro il paziente aveva richiesto la visita per la disfunzione e non per la malocclusione.

Bisogna, allora, stare attenti a giustificare queste terapie occlusali, che sono tra l’altro irreversibili, come risolutive del DTM. Bisognerebbe prima occuparsi di risolvere il dolore del paziente o l’eventuale click o la limitazione funzionale, e poi dopo attenta diagnosi, proporre al paziente la correzione della sua malocclusione, che garantirà una più corretta funzione dell’apparato stomatognatico.

Alla fine ci può dire, dr.ssa, quali sono le terapie che proporrebbe per risolvere un DTM?

Anche in questo caso la risposta non è semplice, ma non può essere semplice, perchè i DTM sono delle patologie complesse con molte comorbidità, che non possono essere considerati  solo dei disturbi tipo dolore orofaciale.

I DTM necessitano di un approccio terapeutico multidisciplinare, e in questo approccio si consiglia di cominciare con terapie reversibili, terapie nelle quali è coinvolto anche il fisioterapista con il suo ruolo fondamentale;  ci sono le terapie comportamentali, nelle quali si insegnerà al paziente ad individuare e controllare le sue parafunzioni ed abitudini viziate, poi ci sono le terapie fisiche con massaggi, esercizi, stretching, e poi le terapie occlusali con le placche, anche chiamate bite o splint occlusali, che saranno indossate dal paziente all’arcata superiore o inferiore, a seconda dei casi, e che sono terapie proposte sia in caso di DTM di tipo muscolare che di tipo articolare. In alcuni casi si può ricorrere a terapie irreversibili occlusali o addirittura a terapie di tipo chirurgico.

Intervista a Corrado Comunale

Questo oggi facciamo una chiacchiera con il collega Corrado Comunale, Massofisioterapista e Osteopata esperto in Terapia Manuale Miofasciale e docente Corsi di Fibrolisi.

Corrado Comunale

Massofisioterapista
Perfezionato in Manipolazione Miofasciale Integrata
Perfezionato in Terapia Manuale Osteopatica
Perfezionato in Osteopatia (Osteopata D.O.)

Buongiorno collega cos’è la Manipolazione Miofasciale Integrata?

La tecnica di “deep tissue massage”, più comunemente conosciuta come “manipolazione miofasciale profonda è una metodica manuale, che agisce in profondità sulla fascia muscolare e sull’aponeurosi di rivestimento (tessuto connettivo resistente che riveste i ventri muscolari, li unisce l’uno all’altro e ne permette lo scorrimento).
E’ una tecnica manuale che consiste nell’allungamento delle fasce muscolari allentando le tensioni che si creano tra queste all’interno del muscolo e dei tendini con obiettivo di alleviare dolori muscolari, migliorare il movimento articolare, prevenzione e, per gli sportivi, trattamenti post-allenamento e post-gara.
Si pratica con le mani (polpastrelli e nocche), con gli avambracci e gomiti, e tra le manualità utilizzate troviamo l’allungamento dolce, ma profondo, le trazioni e le digitopressioni/compressioni.

Perché integrata?Cosa vuol dire?

Ad essa possono essere associate altre tecniche manuali, tra cui il massaggio trasverso profondo (MTP), il trattamento compressivo di trigger point (trp) e tender point (tp), e tecniche affini di raffinazione come la FCF® – FIBROLISI CONNETTIVALE e FASCIALE e la coppettazione muscolo-scheletrica, l’uso del calore diretto esogeno e delle vibrazioni.
La fibrolisi viene applicata in ultima istanza come tecnica di raffinazione.

La coppettazione è utile allo scollamento dei tessuti, alla riossigenazione di aree ischemizzate o squilibrate, alla ripulitura dopo le demolizioni di esiti corpuscoloaderenziali a seguito della fibrolisi (come fosse una grande onda che spazza via i residui e ne agevola il riassorbimento), e tanto altro ancora inteso come siacome metodo, che come estratto filosofico.
È un massaggio lento, ritmato e, in linea di massima, notevolmente profondo. Praticato in specifiche zone, dove risulta maggiormente profondo o, ancor meglio, seguendo le catene miofasciali.

Le condizioni essenziali in questo tipo di trattamento sono due :
• Precisione
• Scelta della tecnica giusta.

Secondo lei da cosa dipende il dolore miofasciale?

• OVERUSE
• SEDENTARIETA’
• TRP (Il trigger point miofasciale costituisce una realtà funzionale in cui i nocicettori sono divenuti iper-irritabili) mappatura: 400
• TPS (errore di processazione neurofisiologica) mappatura: 200
• MODIFICAZIONI DEI PATTERN STRUTTURALI (DA VARIE CAUSE) NON
ADATTATI
• POST TRAUMATICI
• ADERENZE
• GELOSI MIOFASCIALE (è anche chiamata “ispessimento generalizzato della fascia”. E’
originata da una congestione delle estremità dei vasi linfatici che circondano le cellule
connettivali fasciali e determina un ritorno della linfa di nuovo verso la direzione di arrivo
• CICATRICI PATOLOGICHE (PATHOLOGICAL SCARS)
• PRESSIONE ATMOSFERICA.

Cos’è la Fibrolisi? Come si utilizza?

Fibro[da fibra]. – Primo elemento di parole composte della terminologia scientifica, nelle quali indica connessione o relazione con una struttura fibrosa, o anche con tessuto fibroso o connettivo.
lisi-Dal gr. lýsis ‘scioglimento,scomposizione, separazione, demolizione’.
La fibrolisi consiste in un intervento specifico strumentale, finalizzato alla normalizzazione delle  funzioni del sistema muscolo-scheletrico, con estrema precisione e conservando l’integrità della pelle.
Si tratta di una tecnica per uso specifico in fisioterapia e medicina riabilitativa, che offre ottimi risultati nel trattamento di varie patologie che colpiscono il sistema muscoloscheletrico, soprattutto se applicata a livello dei tessuti molli.
La sua azione di rilascio tra le partizioni interfasciali e miofasciali ripristina il corretto scorrimento dei differenti piani anatomici durante il movimento e risolve potenziali fenomeni di compressione che possono causare dolore e disfunzione.
In presenza di eventi acuti la risposta del nostro organismo non sempre è ottimale. Il processo di guarigione può non essere perfetto e il risultato è la presenza di “cicatrici” o “aderenze” nei muscoli o nei tendini.
Tali cicatrici si presentano sotto varie forme come noduli o aderenze fibrose. A volte il processo di riassorbimento di tali strutture può durare mesi, se spontaneo, a volte può non avvenire. La fibrolisi cerca di avviare o accelerare il processo di riassorbimento, riportando il tessuto in condizioni di normalità.
È possibile simulare i benefici della fibrolisi in casi molto semplici, per esempio quando un evento traumatico (come un paio di scarpe sbagliato) ha creato un piccolo nodulo sul tendine d’Achille.
Istintivamente, tendiamo ad automassaggiarlo con un movimento dolce ma deciso, che ha l’obiettivo di sciogliere il nodulo (il quale normalmente richiede spesso due o tre mesi per il riassorbimento spontaneo).
La fibrolisi è una metodica utilizzata in ortopedia, reumatologia, fisiatria e medicina sportiva che si rivela utile e in alcuni casi indispensabile in situazioni morbose di difficile trattamento che interessano i tessuti molli e le fibrosi para e periarticolari.
Se applicata correttamente, dimostra un’efficacia superiore ad altri mezzi fisioterapici nelle aderenze post-traumatiche e post-infiammatorie con sintomatologia dolorosa e limitazione funzionale.
La fibrolisi ha importanza anche ai fini diagnostici perché rende possibile percepire e localizzare con una palpazione profonda strumentale la presenza di formazioni fibrose nel contesto dei tessuti molli.
Essi consentono di esplorare e localizzare processi reattivi anche di modesta entità grazie alla forma dello strumento e alle piccole dimensioni delle punte esploranti e di trattare anche zone situate in profondità.

Quante fasi di trattamento ci sono?

Ci sono sempre due fasi di trattamento o diagnosi/trattamento: fase ispettiva manuale e strumentale.

➡ Manualmente si utilizza la tecnica di palpazione profonda eseguita con un dito. Le formazioni corpuscolari possono essere avvertite con la percezione tattile sfumata.
➡ La sensazione che si prova può essere paragonata a alla compressione di un granello di sabbia, posto su una superficie dura, e infrapposto da un fazzoletto piegato in otto.
➡ Il fibrolisore, per le sue peculiarità che lo differenziano dalle dita (come, ad esempio, il materiale inflessibile e le ridotte dimensioni della punta) , a questo punto diventa uno strumento di riferimento determinante sia a livello diagnostico che correttivo.
➡ La differenza tra l’indagine manuale e quella strumentale è molto semplice da descrivere:
immaginate di avere una tela stesa su un piano e farvi scorrere sopra il polpastrello; dopodiché ripetete l’operazione con l’unghia. Quest’ultima, per durezza, ci fa avvertire una caratteristica vibrazione.
Ispezione superficiale
➡ Considerando le limitazioni delle dita sopraindicate, ci si avvale del fibrolisore per la ricerca delle formazioni fibrose.
➡ Se ipotizzassimo che formazioni fibrose siano superficiali e ben comprimibili su un piano osseo, sarebbe sufficiente appoggiare la “punta esplorante” sulla cute sovrastante ed eseguire dei brevi movimenti di “va e vieni” facendo scorrere la cute stessa sui piani profondi, esercitando una debole pressione.
➡ La sensazione che si percepisce tramite lo scorrimento del ferro è quella di un’asperità amplificata dalla vibrazione dello strumento.
Ispezione profonda
➡ Se, invece, si ha necessità di esplorare una zona profonda o muscolare (a seguito di un’ispezione manuale orientativa), si afferra saldamente la massa muscolare fra pollice e medio della mano non dominante (quella dominante impugna il ferro), e la si solleva pinzandola e seguendo il decorso delle fibre.
➡ Successivamente si affonda la punta dello strumento nella piega, curandosi che la porzione di cute e muscolo prelevata riempia in toto la convessità del ferro.
➡ Successivamente si esegue un movimento bimanuale sincrono di “va e vieni”.

Gli esiti corpuscoloaderenziali

➡ La fibrolsi diacutanea originale di Kurt Ekman si basa su un principio molto semplice:Il trattamento degli esiti corpuscoloaderenziali di fibrosite (1920).
Eziopatogenesi degli esiti corpuscoloaderenziali:Processo infiammatori o edemi post traumatici (essudato SIERO-FIBRINICO non riassorbito che SI “ORGANIZZA” grazie all’aggregazione delle PROTEINE in esso contenuto).
NB: per giungere a tale organizzazione sono spesso necessari anni.

Come si esegue un trattamento di Fibrolisi?

➡ Segue la strategia dell’ispezione profonda, ed avendo precedentemente evidenziato le formazioni corpuscolari (o aderenziali) responsabili della sintomatologia, si agganciano con la punta del fibrolisore e si frammentano con piccoli e veloci movimenti a scatto.
➡ La mano non dominante, muovendosi in sincronia con quella che impugna il ferro, è di supporto nello spostamento del tessuto la cui inerzia, se gravasse totalmente sul fibrolisore, potrebbe penetrare nel tessuto; quindi lesionarlo. (Vale solo per i ferri particolamente “taglienti”).

Che cos’è la Coppettazione?

La coppettazione è una tecnica antichissima e consiste nell’applicazione sulla pelle di coppette a “vuoto d’aria” (suzione).
Si suddivide in statica e dinamica.
L’applicazione produce come effetto un’alterazione dei flussi energetici del corpo mediante una stimolazione della circolazione sanguigna e linfatica.
La coppettazione si può quindi considerare anche una terapia “riflesso-stimolante” poiché sfrutta i principi della medicina tradizionale cinese agendo sulle cosiddette zone riflesse.
Tramite essa è possibile ripristinare l’equilibrio e ristabilire la funzionalità dell’organo o dell’apparato in disarmonia.
Fu Ippocrate, medico greco del III-IV secolo a.C. a gettare le basi teoriche della coppettazione e a fornire indicazioni precise sulla modalità corretta di applicazione.
In Cina rientrò tra le tecniche curative che utilizzano il calore della medicina tradizionale cinese associata spesso al massaggio e all’agopuntura.
Fu Bernard Aschner, Medico austriaco, che agli inizi del ‘900 la rivalutò e introdusse tale pratica tra le tecniche terapeutiche.
Il colore segni da coppettazione dipendono dal livello di stagnazione nella zona, e vanno da un rosso acceso al viola scuro, solitamente della durata di tre giorni a una settimana (a volte più a lungo se la persona è molto malata o sedentaria).
Se non è presente stagnazione, ci sarà solo un segno di luce rosa che scompare in pochi minuti o un paio di ore.
Siti dove sono vecchi traumi o lesioni possono richiedere più trattamenti di coppettazione.
I marchi saranno visibilmente più leggeri man mano che i patogeni vengono sistematicamente rimossi dal corpo.
Se i segni si presentano con una tonalità di viola più intenso, generalmente indicano una maggiore stagnazione di sangue, e probabilmente l’origine dei dolori avvertiti dal paziente si trova appena sotto quella zona che, pertanto, costituisce il punto in cui bisognerebbe concentrare l’applicazione delle coppette o altri trattamenti in futuro.
La sensazione ottenuta dopo l’applicazione è di natura simile al massaggio, ma di direzione opposta: le coppette applicate sulla cute esercitano, infatti, una suzione richiamando i tessuti verso l’esterno.
In questo modo gli strati cutanei e muscolari non sono spinti verso l’interno del corpo, come avviene nel massaggio, ma sono trazionati verso la superficie.
Per questo motivo la tecnica trova una particolare efficacia nell’alleviare il dolore dei pazienti affetti da patologie vertebrali compressive.
La coppettazione è in grado di esercitare un’azione di allungamento forte e profonda sui tessuti, rilasciando le contratture muscolari e riducendo così la rigidità che spesso accompagna forme croniche di patologie vertebrali, emicranie e altre forme infiammatorie. Inoltre l’incremento del flusso ematico nei tessuti è in grado di migliorare l’ossigenazione a livello cellulare con una conseguente velocizzazione dei processi riparativi muscolari.
Per questo motivo la coppettazione è una pratica oggi molto popolare tra gli atleti di molti sport a tutti i livelli, compresi atleti olimpionici.
Da un punto di vista nervoso occorre considerare che al pari dell’agopuntura, la coppettazione è in grado di favorire l’ingresso del corpo in uno stato di profondo rilassamento. Il meccanismo sul sistema nervoso centrale attraverso cui avviene questo fenomeno non è ancora chiaro, tuttavia è dimostrata la capacità di questa tecnica di modulare i livelli di alcuni ormoni coinvolti nella percezione del dolore.
Il profondo stato di rilassamento ottenuto crea un substrato favorevole al recupero muscolare, oltre a poter essere utilizzato nei molti casi di patologie a sfondo ansioso-depressivo.
Nonostante la ricerca scientifica sia ancora limitata è noto che l’efficacia della coppettazione sia dovuta alla capacità di incrementare il flusso ematico nei tessuti, dilatando i capillari e creando un’alterazione della struttura della cute.
Da un punto di vista ormonale è stato osservato come l’applicazione delle coppette sia in grado di modulare i livelli locali di sostanza P sierica, un ormone responsabile della percezione del dolore.
L’applicazione delle coppette favorisce la migrazione locale di cellule del sistema immunitario capaci di sostenere e velocizzare i processi riparativi a livello cellulare.
Non secondariamente il noto incremento del flusso ematico locale ha dimostrato un ruolo importante nel velocizzare il processo di spegnimento dell’infiammazione.

Grazie per il tempo concessoci a presto Corrado. Buon Lavoro

Fast Track

Chirurgia protesica mini invasiva Fast Track: intervista al dr. Michele Massaro

Si sente parlare sempre più spesso di chirurgia protesica mini invasiva, un po’ meno della tecnica Fast Track legata a doppio filo con la tecnica più avanzata per impiantare protesi ginocchio ed anca: non abbiamo voluto incontrare il dott. Michele Massaro, ortopedico dell’anca e del ginocchio, per caso.

E’ uno specialista in Ortopedia e Traumatologia del Gruppo Humanitas (Milano-Bergamo) ed esperto nel campo della chirurgia mini invasiva protesi anca e ginocchio. La serie di procedure nota come Fast Track Surgery è di normale routine per la sua intensa attività di chirurgo.

Fast Track si traduce in inglese con ‘percorso rapido’. Ai tempi rapidi di ospedalizzazione conseguono i benefici tipici della chirurgia mini invasiva a cui ricorrono sempre più pazienti anche in Italia.

Iniziamo con la domanda più ovvia e necessaria. Cos’è la Fast Track Surgery? In che consiste e a cosa serve?

Michele Massaro – “La Fast Track Surgery consiste in tutta una serie di procedure da attuare allo scopo di ridurre al minimo la risposta metabolica, neuroendocrina e dell’intero organismo allo stress chirurgico. Grazie a questo protocollo, si ottiene una ripresa funzionale precoce, una riduzione delle complicanze post-operatorie. Mentre i tempi di degenza si accorciano, aumenta la qualità della cura.

La chirurgia fast track combina le tecniche chirurgiche mini-invasive ed endoscopiche ai protocolli gestionali del paziente: tutto questo al fine di ottenere un recupero precoce delle normali funzioni, oltre ad un controllo ottimale del dolore ed alla riabilitazione postoperatoria intensiva (come la ripresa precoce dell’alimentazione e della deambulazione).

Per attuare questa serie di procedure è necessaria la collaborazione non soltanto del paziente ma anche degli operatori sanitari (medici, infermieri, anestesisti, fisioterapisti, nutrizionisti, ecc.): solo in questo modo è possibile renderla davvero efficace”.

La prima volta che abbiamo sentito parlare della possibilità di accelerare i tempi di recupero, abbiamo pensato subito ad una strategia orientata al risparmio sul costo della degenza ospedaliera. Insomma, un modo sbrigativo per congedare prima possibile il paziente dall’ospedale.

M.M. – “No, non è un modo sbrigativo per congedare prima possibile il paziente dall’ospedale. E’ molto di più. In primo luogo, è un grande vantaggio per il paziente; in secondo luogo, offre la possibilità di ridurre i tempi di degenza riducendo i costi ospedalieri.

A questo aggiungiamo le liste di attesa ridotte quasi a zero negli ospedali, visto che degenza e tempi di recupero si riducono. Il cambio di tecnica è la conseguenza di un cambio di mentalità in ambito chirurgico. Il percorso Fast Track è un nuovo modo di pensare la chirurgia”.

Può spiegarci meglio, dottor Michele Massaro, cosa s’intende per ‘nuovo modo di pensare la chirurgia’?

M.M. – “La chirurgia mini invasiva Fast Track consiste in un sistema intelligente, di alta qualità ed efficienza, che serve ad ottimizzare i tre momenti pre-operatorio, operatorio e post-operatorio nell’interesse del benessere psico-fisico del paziente. Sono crollati certi principi che la chirurgia ha costruito negli anni.

Una volta crollati questi principi, è cambiata giocoforza la tecnica anestesiologica e pre-operatoria. Il cambiamento di mentalità ha portato ad una modifica della tecnica chirurgica per la quale sono stati necessari studio, formazione costante del personale, una riorganizzazione specifica”.

Grazie al Fast Track cosa succede esattamente nei tre momenti pre-operatorio, operatorio e post-operatorio?

Michele Massaro – “Nella fase pre-operatoria, il paziente viene preparato ed informato sulle procedure anestesiologiche e chirurgiche. Riceve consigli importanti come astenersi da fumo e alcol, seguire una dieta equilibrata e sana.

Tra i vari principi ‘crollati’ di cui accennavo prima, c’è il famoso digiuno pre-operatorio dalla mezzanotte del giorno che precede l’intervento: è stato in gran parte superato perché, in tal modo, si assicura uno stato metabolico/nutrizionale ottimale.

La delicata fase operatoria prevede la preparazione all’anestesia ed il monitoraggio della stessa, il corretto posizionamento del paziente sul lettino operatorio, l’assistenza durante il risveglio, il controllo del dolore dopo l’intervento tramite analgesia loco-regionale con blocco selettivo dei nervi.

Si punta a ridurre la somministrazione di oppiacei, episodi di nausea e vomito. L’obiettivo principale è ridurre al massimo lo stress chirurgico.

Nella fase post-operatoria, si assiste ad un cambiamento del concetto di assistenza medica ed infermieristica. Il recupero rapido e sicuro prevede la gestione del dolore senza l’uso di morfina.

Allo scopo di prevenire complicanze cardiocircolatorie e respiratorie, il paziente deve necessariamente alzarsi lo stesso giorno dell’operazione (entro 6 ore dopo l’intervento).

Evitando la pratica del digiuno, si favorisce il veloce ripristino della funzione intestinale. Si riducono, così, lo stress operatorio ed i tempi di degenza in ospedale”.

Oltre al protocollo Fast Track che coinvolge i tre momenti (fase pre-operatoria, operatoria e post-operatoria), cos’altro rende possibile la riduzione dello stress operatorio ed i tempi di degenza in ospedale più rapidi?

M.M. – “Senza dubbio, l’utilizzo di protesi anca e ginocchio di dimensioni più piccole e meno ingombranti sono fondamentali per la chirurgia mini invasiva.

Sono realizzate, oltretutto, con materiali all’avanguardia come ceramica, polietilene con vitamina E, tantalio, titanio per durare più a lungo (20-25 anni, anche 30 anni in certi casi). La durata dipende dalle sollecitazioni a cui il paziente sottopone il suo arto e la protesi nel corso del tempo.

Queste protesi sono gli strumenti adatti per rendere possibile la chirurgia mini invasiva Fast Track per l’intervento ‘lampo’ di chirurgia protesica che consente di ridurre i tempi di ospedalizzazione a soli 2-3 giorni (un terzo rispetto al passato).

Tempi ridotti contro una qualità del servizio ed un’efficienza di alto livello. Questo sistema permette al paziente di camminare lo stesso giorno in cui viene operato e di fare le scale il giorno successivo”.

Quindi, dottor Michele Massaro, l’esperienza chirurgica è meno traumatica grazie anche agli strumenti utilizzati, le protesi più piccole?

M.M. – “Strumenti e tecnica chirurgica avanzata viaggiano insieme e si completano. Ovviamente, l’incisione è ridotta perché la protesi è più piccola e ne consegue, perciò, anche un minor sanguinamento durante e dopo l’intervento, minore dissezione dei tessuti.

La chirurgia mini invasiva salvaguarda i tessuti (muscoli ed ossa), ha maggior ‘rispetto’ del corpo se la paragoniamo alla chirurgia tradizionale. Essendo l’intervento meno aggressivo e l’esperienza chirurgica meno traumatica, i tempi di recupero e riabilitazione si accorciano.

Il vero successo per chi crede da sempre, come me, nella chirurgia mini invasiva Fast Track è vedere i pazienti sorridere e non soffrire, dopo l’intervento. Non hanno bisogno di trasfusioni di sangue, controllano bene il dolore, rischiano meno (lussazioni, eventi avversi, complicanze)”.

Il fisioterapista ha un ruolo determinante, in fase di riabilitazione e recupero del paziente?

Michele Massaro – “In riferimento alla chirurgia mini invasiva Fast Track, più che di recupero classico si dovrebbe parlare di mantenimento ottimale del livello funzionale del paziente.

Il paziente resta il protagonista del suo recupero e, in questa delicata fase, il ruolo del terapista è determinante. E’ una sorta di educatore, un coach sia per il paziente sia per i familiari e le persone impegnate a stimolarlo”.

A che punto siamo in Italia?

M. M. – “Molti definiscono la rivoluzione del Fast Track il futuro della chirurgia mini invasiva. Niente di più sbagliato. Questa tecnica è presente, è realtà da almeno 5-6 anni.

Come spesso succede, nonostante si conoscano i vantaggi (sia per la salute del paziente sia per il bene del sistema sanitario), ci vuole tempo per assorbire questa realtà a livello organizzativo.

Tutto quello che serve, oggi, è diffondere il più possibile questo percorso rapido a largo raggio”.

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